CONCEPT 2014 

#SELFWARE 

Every man has inside himself a parasitic being who is acting not at all to his advantage. 
William S. Burroughs

Selfware: una riflessione sui processi che investono l’individuo in una fase in cui la tecnologia unita alle logiche di business riconfigura le nozioni di identità, soggetto, consapevolezza.
Nel giro di pochi anni abbiamo assistito a una rapida, inesorabile, tragicomica mutazione delle prospettive e degli scenari aperti dalla rete e dalle macchine informatiche. Circolazione e condivisione di informazione, collegamenti di intelligenze, spazi di creazione collettiva, tutte le iniziali entusiastiche promesse sulle potenzialità dell’individuo digitale devono ora fare i conti con uno scenario decisamente diverso.
Il tanto declamato e liberatorio digital self è adesso catturato all’interno di processi inquietanti:

la spirale narcisistica connaturata alle tecnologie social che lo spingono ipnotizzato verso il meticoloso assemblaggio della sua vetrina personale, fatta di brandelli di immagini, gusti, opinioni, memorie e sentimenti, una sorta di costante self branding che nutre un mercato che coincide sempre più con lo spazio dei media;

il proliferare di contenuti generati dall’utente che crea un contesto in cui l’interezza del soggetto, la sua esperienza vitale, le sue competenze, le sue performance linguistiche, divengono di fatto risorse/prodotti (a costo zero), spingendo in questo modo i confini dello sfruttamento fin nei più reconditi ambiti della soggettività; un soggetto che a suon di like & share si offre spontaneamente e gioiosamente in pasto ai raffinati algoritmi delle grandi compagnie del capitale globale facilitando l’incessante schedatura e profilazione di ogni suo comportamento, preferenza, tendenza,orientamento.

Insomma, ogni atto espressivo, ogni frammento di linguaggio, ogni manifestazione di sé depositata liberamente sulla rete per comunicare con gli altri, per rappresentarsi, per divertirsi, per godere, è immediatamente catturata e convertita in valore economico (nelle tasche di qualcun altro).

Fai esperienze, lavora con passione, vivi intensamente, coltiva le tue passioni, esprimiti, ma mi raccomando: condividilo sulla rete.
Non è controllo autoritario, non è attacco alla privacy, non è sorveglianza.
È un’autocolonizzazione. È il lato oscuro del selfware.

Eppure nelle maglie di questo sé modulato ed esteso dalle tecnologie si accumulano potenziali inediti di individuazione singolare e collettiva. I processi tecno-economici producono sempre eccedenze che la macchina del controllo non è immediatamente in grado di ricatturare.

Gli spazi regolamentati dell’ingegnerizzazione sociale innescata dagli algoritmi secernono ovunque spazi liminali dove il divenire ė in corso. Si tratta di scoprirli, mapparli, esplorarli, trovarvi il materiale per inizializzare nuove pratiche soggettive e quindi collettive, selfwares obliqui e meno docili.
Non ė certo un compito facile, inutile nasconderlo.
Come da sempre nella storia, la sperimentazione artistica costituisce uno di questi luoghi: in particolar modo quella che individua nelle tecnologie non solo il crinale della riflessione critica, ma soprattutto il terreno e gli elementi per nuove macchinazioni e per la previsione di scenari inusitati.

Le arti elettroniche e il codice creativo sono uno dei luoghi in cui tutto questo diviene se non possibile, almeno pensabile e progettabile, spazi in cui gli algoritmi e le macchine possono essere avviati su percorsi erratici e improduttivi. Flussi si propone di esplorarli proprio nel momento in cui la campagna di colonizzazione finale di questi spazi ė stata lanciata, e la creatività soggettiva e sociale è sul punto di essere completamente presa di mira dalle agenzie delle corporation globali.